Camicia con i fiori, cappellino, pantaloncini (anche in inverno), occhiali da sole, sandali (possibilmente con calzino bianco). Ovvero lo starter pack di ogni turista straniero a Roma che si rispetti. Quest'anno, nella Città Eterna, di questa tipologia di turisti ne sono arrivati parecchi. Le stime a Luglio 2024 parlano di 1,8 milioni di turisti stranieri (il doppio degli italiani), con un tasso di occupazione delle camere di albergo che è il 10% in più della media delle città europee. I turisti rappresentano una scenografia tipica di Roma, quanto i suoi sanpietrini. Le statistiche sono incredibili, ma offrono solamente un quadro analitico di una situazione che è piuttosto evidente nella quotidianità e nella vita della città.
Basta girare brevemente per le strade di Roma per rendersene conto. Basta passeggiare per le vie di Trastevere, probabilmente il rione più noto e celebrato dell'Urbe, per essere costretti a fronteggiare folle interminabili di cappellini colorati e improbabili camicie a fiori/quadri. Si potrebbe scrivere un intero libro sulla fenomenologia del turista straniero tipo a Trastevere. Tendenzialmente cammina ondeggiando, ha uno sguardo a metà tra l'ammirato e il gioioso, ogni tanto dice parole-chiave come "fettuccini" e "gelatto". Il turista straniero tipo vive ancora di stereotipi su Roma e sugli italiani. La triade "mafia-spaghetti-mandolino" è ancora profondamente radicata in un immaginario collettivo evidentemente piuttosto antico e sedimentato. L'idea del romano burino, piagnone e magnone, cristallizzata dalla figura archetipica di Alberto Sordi, è ancora piuttosto viva in un certo tipo di turisti. L'immagine di Roma è ancora quella del film "Vacanze romane" del 1953, quello con Gregory Peck e Audrey Hepburn che girano per la città in vespa. Il film di Woody Allen su Roma, l'orribile "To Rome with love", è una testimonianza di questo, così come le recentissime puntate della serie "Emily in Paris" a Roma.
Roma è mettere la mano nella Bocca della verità. Roma è lanciare la monetina nella Fontana di Trevi. Roma è la foto con il tizio vestito da gladiatore. È folclore. Il risultato è il kitsch, che, come scrive Milan Kundera, è "il regno dove impera la dittatura del cuore". La regola fondamentale è quella del sentimentalismo estremo, privo di quella che siamo soliti chiamare "anima". Come scrive Kundera: "I sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere, ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone. Per questo il Kitsch non può dipendere da una situazione insolita, ma è collegato invece alle immagini fondamentali che le persone hanno inculcate nella memoria. …un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch. […] Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell'esistenza umana è essenzialmente inaccettabile".
Vi ricorda qualcosa? A noi ricorda il Centro di Roma, appiattito a una cartolina senza identità e senza storia: una narrazione senza contenuto. Sembra una descrizione di quelli che il sociologo Marc Augè definiva “nonluoghi”, ovvero quei luoghi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. C’è passaggio, ma non relazione. C’è consumo, ma non vissuto. Tutto è uguale a tutto e regna l’anonimato. I rioni del Centro della città non esistono più, non sono più abitati realmente, se non da qualche vecchietto sopravvissuto e da qualche ricco proprietario. Dove c'erano le case, oggi ci sono i bed & breakfast. Dove ci sono le botteghe, ci sono ristoranti tipici (?) romani tutti uguali e falsissimi negozi di souvenir. E i residenti si sono dimezzati. Attenzione, però: non vogliamo in questo modo fare i nostalgici e nemmeno i passatisti. Il progresso, per come le nostre società lo hanno concepito, probabilmente porta inevitabilmente a questo esito. La turistificazione, la mercificazione della cultura e della storia, la gentrificazione, sono processi ormai avviati da decenni nelle città europee e sicuramente non riguardano soltanto Roma (basta guardare, per dirne una, alla recente esperienza di Barcellona).
Il nostro interesse è la descrizione e l'analisi. Ci interessa anche capire quali sono le nostre responsabilità. Perché, diciamocelo chiaramente, possiamo accusare i turisti di avere un'immagine stereotipata di noi, possiamo accusare il sistema, ma quale è l'immagine che abbiamo trasmesso di noi agli altri? Non siamo stati noi a trasmettere l'idea del Belpaese e di una nazione fondata sul bel sole e sul buon cibo? Non siamo noi che continuiamo a sostenere che la carbonara vada fatta esclusivamente in un modo, rispettando una fantomatica ricetta originale, per poi lamentarci che i ristoranti romani del Centro sono tutti uguali? "Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti", diceva qualcuno. Il modello di città che abbiamo creato può piacere o non piacere. Se non piace può essere ripensato. L'importante è avere le idee chiare (cosa conservare? cosa cambiare? come? quale può essere un modello alternativo?) e, ovviamente, agire. Ognuno come può. Il dibattito è aperto. Scriveteci che ne pensate e delle eventuali proposte.
Ora vi lasciamo a un esempio di come questo modello descritto si concretizzi nell'ambito cibo e ristorazione. In particolare, nell'ambito carbonara. Vi parliamo del modello tipico di ristorazione trasteverina, con la nostra recensione sul tanto famoso e discusso "Tonnarello" (la abbiamo pubblicata anche su Instagram). Buona lettura!
La recensione di Tonnarello è quella che da sempre tutti si aspettano e al tempo stesso non si aspettano da parte nostra. Tutti non se la aspettano perché "Tonnarello" è un posto mainstream, turistico, social, commerciale, senza arte né parte, senza nessuna qualità, buono soltanto ad abbindolare stranieri e gente che non capisce nulla di cucina, figurarsi di carbonara. Tutti se la aspettano perché "Tonnarello" è un posto famosissimo, frequentatissimo, social (e quindi perché non parlarne sui social!?), di cui parlano tutti (male, ma anche bene) a Roma e in tutto il mondo, iconico controverso, discusso, tanto amato quanto odiato.
Ed eccoci allora qui, ad accontentarvi e al tempo stesso scontentarvi tutti: siamo stati finalmente da Tonnarello!
Ci siamo andati una domenica di Settembre a cena, sul presto (quindi non abbiamo fatto la tanto temuta fila, anche se pure all'uscita ci è sembrato che i posti non mancassero...). Siamo andati con tutto un bagaglio di pregiudizi accumulati in anni di voci, sentenze, opinioni sentite e lette su "Tonnarello". Dunque, siamo andati con aspettative ben chiare, pronte a essere disconfermate, certo, ma piuttosto nette e ben definite. Le voci, sentenze, opinioni sentite e lette negli anni hanno variato da un estremo all'altro: dalla "migliore carbonara di Roma" alla peggiore carbonara di sempre. La nostra aspettativa: la verità sta nel mezzo? Siamo andati alla sede a Piazza della Scala, in pieno quartiere Trastevere. Ma in realtà "Tonnarello" è ovunque a Trastevere. Le sedi sono quattro, ma passeggiando per il quartiere sembra che ce ne siano molte di più (sarà che ci sono molti format simili: qualcuno si è mai chiesto, ad esempio, qual è il rapporto tra "Nannarella" e "Tonnarello"? Se ne siete a conoscenza fatecelo sapere nei commenti...). "Tonnarello" e Trastevere sono legati in modo strettissimo: non solo per il radicamento territoriale e la posizione, ma anche e soprattutto per la loro natura. È un legame segnato dal turismo di massa, da un'estetica folcloristica che dice tanto di come all'estero si rappresentano Roma e la romanità (e come noi stessi vogliamo rappresentarla!). Un'estetica a metà strada tra il carino e il banale, fatta di tovagliette, brocche d'acqua, tavolini appiccicati e osti poco credibili. A cui i turisti stranieri (la maggior parte, ma non l'unica tipologia di clienti) risponde con camice a quadri, abiti floreali e cappelli da tardo '800 coloniale. Una combinazione perfetta.
Di romano, però, c'è ben poco e non serve essere romani da mille generazioni per capirlo. "Tonnarello" (così come Trastevere, che ormai da tempo non è più un vero rione romano: vedi i bed & breakfast, vedi i locali, vedi i negozi, vedi l'assenza di abitanti autoctoni), è un frutto acerbo del turismo di massa, della ristorazione votata alla produzione di massa e al dio Quantità. Lo dimostrano i tavolini ammassati, ma soprattutto la quantità esagerata di cuochi che lavora in cucina (semi a vista), che denota una produttività che ricorda le fabbriche della prima età industriale. Una catena di montaggio di tonnarelli: una sorta di fordismo trasteverino. Attenzione, però: in questo modo noi non vogliamo dare un giudizio di valore, né dire che è un male (sta a voi giudicare). Vogliamo soltanto descrivere quello che abbiamo visto e pensato, dando un'idea della cornice in cui ci muoviamo e delle caratteristiche del ristorante.
A nostro parere, le recensioni su "Tonnarello" peccano di assenza di contestualizzazione. Si valuta la carbonara e la cucina senza considerare minimamente la tipologia di locale che è. Ed è sbagliato. Perché, vogliamo dirlo chiaramente, senza giri di parole: se si considera la tipologia di ristorante, la cucina di "Tonnarello" non è poi così male.
Partendo dal servizio, va evidenziata una gentilezza e una cortesia notevoli (aspetti assai rari, soprattutto in certa ristorazione tipica del Centro della città). Il menù è semplice, essenziale, indubbiamente tarato su esigenze specifiche, proprie di un pubblico turistico (vedi la lasagna e altri piatti che hanno poco di romano). Comunque c'è tutto quello che serve per una buona scelta e per un buon pasto romano, tra l'altro a dei prezzi abbastanza bassi se si considera la posizione centrale e l'hype. Come da nome, il tonnarello fa da padrone, costituendo la materia prima della maggior parte dei primi piatti in menù, tra cui la carbonara.
E come è questa benedetta e discussa carbonara? Nel complesso, okay. La presentazione risente della natura del locale. Potremmo definirla una presentazione turistica. Viene servita su delle padelline usurate e appare come bella sostanziosa (anche se probabilmente, a livello di quantità, corrisponde semplicemente a un normale piatto un po' abbondante). La carbonara non è giallissima (Instagram piange...), probabilmente per il fatto che viene utilizzato l'uovo intero (il che non è male). La pasta è anche abbondante, ma mancano un po' gli altri ingredienti (dal sapore si sente che il formaggio e il pepe scarseggiano e il guanciale è da ricercare nelle profondità della crema). Questo porta a un gusto piuttosto anonimo, debole, che la rende però anche molto leggera e sicuramente non stomacante. Il tonnarello è buono, sicuramente non artigianale (la produzione non lo permetterebbe: il locale è aperto dalla mattina alla notte fonda ed è sempre pieno!), ma fa la sua discreta figura. Bene la consistenza della crema, giusta, sebbene non sia un piatto che eccelle per una super cremosità. Il prezzo è onesto: 12.50€. Vista la posizione, la natura del locale, i tempi ecc... vanno fatti i complimenti per l'onestà.
Non è la bontà e nemmeno la qualità (media, se si contestualizza) ciò che non abbiamo apprezzato di "Tonnarello". Tutto sommato abbiamo mangiato bene e va lodato il fatto che si servono a turisti o comunque ospiti della città piatti decorosi, senza alcuna minima parvenza di truffa (il che non è scontato). Ciò che non abbiamo apprezzato, probabilmente da nativi romani, è la filosofia sottostante, che probabilmente attiene più al luogo in cui è immersa che alla gestione. Trastevere è diventata una cartolina, quasi una macchietta. Bella sì, ma a uso e consumo di un turismo massificante, depredante, becero e volgare. Purtroppo un luogo senza anima, disabitato, assediato da bed & breakfast, negozi di souvenir e locali tutti uguali. Quello che Marc Augé definirebbe un "nonluogo": privo di identità, staccato da qualsiasi rapporto con il contorno sociale, con una tradizione, con una storia. Spazi in cui migliaia di identità si incrociano senza entrare in relazione, spinti dal desiderio frenetico di consumare. Senza essere apocalittici, è lecito chiedersi se questo è il modello che vogliamo? Insomma, nulla da obiettare sulla bontà, sull'onestà, sul rapporto quantità/qualità/prezzo. Ci sta. Come prevedevamo, la verità sta nel mezzo tra i vari estremismi. Una realtà del genere, tuttavia, ci interroga su quello che vogliamo per la nostra città, per la nostra cucina, per il nostro modo di comunicare, di "venderci", di rappresentarci. Si può proporre un format o un concetto. Così come si può consumare un piatto o mangiarlo, sentirlo e fare un'esperienza. Così come la carbonara può essere un prodotto, un bene di consumo, o qualcosa di più, di emozionale, con una storia e una cultura unici, con un mondo dietro e dentro. E scusateci, ma la differenza è enorme...
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